Ignazio Apolloni

                                           RACCONTO SURREALE
Senza titolo-10L’EPOPEA DI UNA VIA ALTRIMENTI ANONIMA 

Mi chiedi di parlare di questa casa, di scriverne. Ti preme, e lo capisco, rivivere i momenti magici – talvolta utopici della prima giovinezza vissuta con gli occhi incantati di chi va scoprendo il mondo ed allo stesso tempo lo odia per quel tanto di incomprensibile che non riesci ad afferrare. Si sono depositate qui molte delle tue esperienze artistiche e furori giovanili contro un sistema bieco di potere legato alla propria sopravvivenza che non a metterlo al servizio delle voci di protesta: quelle portate a desiderare una trasformazione radicale dell’hic et nunc. Ricordo certamente il come eravamo, il come avremmo voluto che l’individuo, la società, il sistema di governo divenissero: più spazio all’inventiva creativa; più socializzazione; più imagination au pouvoir ma anche radicalizzazione della lotta sia pure attraverso tazebao, riviste, pagine ciclostilate di versi contro, pamphlets, lettura di poesie a un pubblico così ignaro di bello e di eufonico da potersi ritenere vergine. E infatti accorreva. Sono stato fin qui reticente ad accogliere l’invito. Mi è sempre più piaciuto l’alone di mistero sulle cose che non le cose. I progetti faraonici rischiano di essere sopraffatti e sepolti dalla disgregazione che ne fanno gli archeologi con lo svelarne strutture e propositi di chi li ha voluti lasciandoli quindi nella loro nuda realtà di costruzioni granitiche. Mi asterrò pertanto dalla magniloquenza e molto sommessamente vado a narrare.

Questa terra di vanagloriosi e inetti dove sono capitato per circostanze strane della vita, nel 1965; questa terra dove sono molto più i parassiti che gli ardimentosi; che si fregia di avere avuto come suoi figli un Federico II° e tutt’al più un Pirandello – dal versante però teatrale e agrigentino – me l’ero figurata impregnata di miti e leggende fino al midollo spinale. Ed in effetti qui si vive più di paladini della Sacra corona unita costituita da gerarchi (in orbace, talvolta, in talare molto più spesso) e oligarchia fatta di baroni di tutte le risme. Così lontane, queste forme di vita associata, dalle democrazie occidentali da apparirmi già da subito tarate, incapaci di uscire dal ghetto dell’ignoranza di stile e di comportamento altrove praticati.
Mi venne un moto di stizza, un conato di vomito quando ebbi a vedere come le massime espressioni del nuovo erano rappresentate da gallerie mignon – quanto a spazi espositivi e personaggi che le frequentavano dandosi del tu ed escludendo chiunque altro non fosse del giro – oppure fatte di conventicole riunite nel nome di poesie auliche o dialettali da praticare. Nulla di simile alla grande stagione francese nel campo delle arti di fine ottocento-primi novecento; né il fervore rivoluzionario e creativo a un tempo degli artisti pop americani (con qualche innesto di europei aperti anche loro alla sperimentazione). La frustrazione, la rabbia mi indussero a espormi, prendere posizione contro, divenire un ANTI. Il caso volle che venissero a trovarmi alcuni altri esponenti della contestazione al sistema, con i quali demmo vita alla Poesia Murale a Ustica nel settembre ’68 e quindi ai recital in piazza o in luoghi caratterizzati da disagio esistenziale, atavico. Ebbe inizio dunque l’avventura detta dell’Antigruppo ben presto conosciuta in Italia attraverso volantinaggi e scambio di materiali con altri gruppi dello stesso ceppo – benché osteggiata dai centri di potere editoriale e baronale – ma sopratutto con l’uso e la distribuzione a braccio (in forma underground appunto) dell’omonima rivista.
Furono anni di autentica esaltazione, quelli. Cominciarono a confluire su Palermo, via Trinacria 52, esponenti della cultura nuova, alternativa a quella affetta da muffa che si riconosceva nelle gallerie o nelle piccole e medie case editrici di accatto – mentre quelle di grandi dimensioni, di stampo monopolistico, alzarono una barriera invalicabile a chiunque non mettesse a loro servizio le proprie energie intellettive. Ovviamente la dimensione della vita qui fu grama ma allietata dalla freschezza, dall’aria pura, dalla volontà di riscatto di chi stava sposando una nuova linea di tendenza verso l’affrancamento di scrittori ed artisti. Tra questi ultimi un posto di rilievo lo ebbe la figura evanescente di Roberto Zito, appartata, contraria a qualsiasi compromesso con l’arte bella, classica, richiesta di solito dai salotti bene: e non a caso dopo avere affrescato alcune pareti e porte della mia casa si diede alla mail art (anch’essa arte povera, naturalmente). Chi altresì sfogò la sua turbolenta creatività con l’affrescare altre pareti e porte di casa mia fu il nisseno Salvatore Salamone del quale adesso darò conto.
Mi venne a trovare che aveva più o meno una ventina d’anni. Non so bene se vidi prima un suo paesaggio su parete in casa Scammaca a Palermo (il reduce, il randagio Nat Scammacca dei 21 punti per una possibile poetica dell’Antigruppo, di carattere squisitamente estetico, ipotetico, tendenzialmente illuministico) oppure la sua capigliatura scapigliata come allora si usava da parte di chi vestiva l’Eskimo (sempreché avesse avuto i soldi per comprarselo: cosa che non era per il Salamone di allora). Gli chiesi se avesse voglia di ripetere l’esperienza da me; affascinato io dalla solarità dei suoi campi di grano biondo sopraffatto dalle forme geometriche di cascine che a loro volta sono l’unico segno della presenza dell’uomo tra tanta natura ilare e giocosa a vedersi. In quel suo tratto – alimentato anche da pini – ci vidi la giovanile forza, anche un tantino estatica, di chi guarda con gli occhi incantati del fanciullo ciò che vorrebbe al posto di ciò che c’è. La città di Palermo, dove frequentava l’Università, gli offriva scene a dir poco apocalittiche di degrado (ancora) post-bellico; strutture oligarchiche di potere cristallizzato, autorizzato e protetto dalle alte e medie gerarchie ecclesiastiche; la stagnazione di qualsiasi processo creativo che non fosse legato a clientele. Ben altra cosa rispetto alla purezza dei suoi sentimenti – i sentimenti di una generazione infranta, come poi si scrisse. Dunque, riscattarsi, esprimere il delicato, il tenero (non proprio fatto di grano tenero) visto dalla “littorina” che lo portava da Caltanissetta a Palermo e viceversa (paesaggio assolato, immaginato bucolico) per riscattare la bruttezza, l’orripilante di quello urbano. Fu così che dopo il quadro a tempera su muro più che su tela del 1974 – del quale parlo e che fu il primo trait-d’union tra due ribelli all’ordine costituito – Salvatore Salamone passò ad affrescare la mia camera da letto a mezzo di un cavalletto e tubetti di colore su cui campeggiano due colombi.
Divenne la mia nicchia, quel luogo: in verità nient’affatto affollato da mobili pensili ma solo libri scompostamente allineati negli appositi scaffali. Non ci fu occasione di visita da parte di ragazzi – o ancor meno giovani – scesi a Palermo dal resto dell’Italia per incontrare me e Vira che non fossero condotti in tale camera da letto secondo il rito di chi voglia miracol mostrare. Di lì a poco una seconda parete, quella di fondo fu letteralmente invasa da sassi plasmati e plagiati dal mare, abbandonati su una delle coste dell’Isola di Salina dove l’artista in erba – nel senso che mangiava erba più che bistecche al sangue – era andato a passare qualche giorno, lui e la tenda canadese a caccia di scandinave solite anche loro recarcisi per assaporare quanto meno la brezza mattutina. Cominciammo a respirare, io e Vira, aria di festa (senza per questo dovere richiamare l’odo augelli far festa di leopardiana memoria). Il soffio dell’aria pulita che ci veniva addosso da quell’affresco finì con l’inebriarci. E così anche la terza parete – la quarta è occupata dalla finestra – ebbe il suo bel jeans appeso a un filo perché si asciughi e conservi solo la salsedine del mare attorno a Salina: dove a questo punto è ipotizzabile sia avvenuta la nascita di Venere che non altrove.
Cambiò il vento. Dopo la ventata (in inglese flurry) della rivoluzione studentesca e relativi anni di piombo l’atmosfera divenne pesante, una cappa di piombo piombò come falchi – dopo le colombe – su coloro che avevano abbracciato (non imbracciato) la linea morbida della contestazione ai detriti di una cultura stagnante oltremodo presente e in forma massiccia su questa città. L’atmosfera si fece cupa. Ci si trovò se non proprio con il cappio al collo certamente imbavagliati. Scenograficamente questo stato di cose fu riprodotto da Salamone con l’aggiungere l’uomo pacco agli scenari naturali, paesaggistici, fin qui riprodotti su alcune pareti di casa mia. Fece lo stesso con dei pesci con l’avvolgerli in carta stagnola, o qualcosa del genere, per quindi legarli con corda e farli affogare in un mare inquinato. Ci fu però un momento di riscatto quando su una delle porte disegnò momenti di apertura e chiusura per poi passare a nuova apertura, quale era ed è rimasta la funzione di quella porta disponibile ad aprirsi a qualsiasi viandante purché ideologicamente affine alla mia Weltanshauung. Seguì di lì a poco la scatola di cartone da cui fuoriescono i tanto osteggiati garofani (a ricordo pure della rivoluzione portoghese, detta anche dei garofani, dopo quarant’anni di dittatura, e per il ripristino della democrazia). Ed infine, quanto ad affreschi, ma non c’era più posto per altri, un globo affetto da una ipercementificazione sotto forma di case villini e grattacieli da cui scappare servendosi di un razzo, mentre il popolo in marcia di Pellizza da Volpedo procede questa volta con la testa in giù.
Più di trent’anni sono passati da quel 1974; alterne le vicende della storia nazionale; immutate invece quelle, se non peggiori, dell’isola Sicilia; frustrate tutte le attese di quella generazione restano solo le tracce del nostro – e loro – esserci stati a gridare (con gli slogan o con i ciclostilati, o riviste e rivistine traboccanti di voglia di cambiamento ed ossigenazione) che lo spreco di intelligenze una società civile non può permetterselo: pena occupare l’ultimo posto. Consola tuttavia il già fatto da coloro che hanno agito: e ciò perché serva di monito alle future generazioni.
Ma non ci fu solo la presenza di Salamone, in casa mia: frequente, spesso nemmeno annunciata come pure fu quella di Nat Scammacca, Pietro Terminelli e Nicola Di Maio – senza però dimenticare il passaggio dalla via Trinacria 52, di scrittori, poeti, artisti, docenti e giornalisti come Sebastiano Vassalli, Armida Marasco, Anna Montefalcone, Santo Calì, Paul Vangelisti, Nicolò D’Alessandro, Enzo Monti, Rolando Certa, Francesco Carbone, Michele Lambo, Alessandro Finzi, Anna Guillot, Toti Garraffa, Piero Buffa, Pietro Ales, Mario Rosolino, Gianni Riotta, Gabriele Profita, Federica Certa, Donatella D’Agati, Stanley Barkan, Beppe Piano, Mario Pietralunga, Vitaldo Conte, Paolo Ruffilli – perché ci fu anche quella di Roberto Zito. Toccò a lui per primo e poi in successivi tempi, rendere vivibile un luogo altrimenti inospitale qual è una casa fatta di muri ben levigati che attendono solitamente di essere bucati da chiodi cui appendere tele. Fu lui a sconvolgere l’assetto mentale, sotto il profilo pittorico, mio e di Vira con il dipingere uno scheletro immerso in una nuvola di calore fiamme e fuoco che sta finendo per divorarne l’ultima, residua carne. I quattro momenti di tale mutamento della condizione umana, poi ripresa in alcune tele laddove il cranio dell’uomo è percosso dal martello pneumatico, fu in seguito mitigata da figure squisitamente poetiche nelle quali si allude al momento adamitico del primo essere venuto al mondo contornato di piante, insetti e fiori. Non prima però di avere dato sfogo alla sua condanna della discriminazione razziale e in particolare quella praticata dal Ku Klux Klan.
C’è nel mio studio, alle mie spalle, una sua interpretazione mistico-religiosa della scintilla, improvvisamente scoccata, da cui sarebbe nata la vita in forma di lumaca, almeno secondo Zito. Mi ha confessato di essere un credente. Gli ho confessato di essere un ateo. La mia dichiarazione lo avrà messo in allarme perché dopo anni di stretta collaborazione (notevoli i suoi volti di donna ai quali ho dedicato due mostre: una presso lo Studio 71 e l’altra all’Atelier sul mare di Antonio Presti; altrettanto notevoli, forse anche di più, i suoi disegni per le mie Favolette e per le Favole e Bubbole ed in particolare i 55 disegni per illustrare a suo modo La favola dell’uovo d’oro tratta da Favole per adulti) ha rivolto altrove i suoi interessi culturali ed esistenziali.
Non posso condannarlo. Non lo condanno. La sua struttura psichica, altamente sensibile, portata a idealizzare e in qualche caso idolatrare l’intimità, l’operatività multietnica e multiforme (l’epoca dell’Alzaia) lo porta a trovarsi male in questa società di accattoni, per dirla con Pasolini; di guardoni e criticoni; saccenti; arrivisti condannati già da Dante a restarsene da dannati in almeno uno dei suoi gironi. Ha deciso di ritirarsi in un eremo, in una sorta di eremo qual è il paesino di Simbario: senza arte né cultura che non sia quella dell’abusivismo edilizio e della distruzione sistematica del bosco circostante.
Sono andato a trovarlo un paio di volte. Gli si leggeva nelle labbra e negli occhi parzialmente spenti l’amarezza. La delusione per la sconfitta dei suoi ideali di vita comunitaria ispirata dal Vangelo secondo Matteo (di cui lui parla come se fosse l’unico amico col quale prova a confrontarsi, anch’egli abitante di Simbario) sembra averlo prostrato. A nulla è valso il richiamo ai momenti più significativi della sua impresa di pittore quando ha dato corpo cromatico e stile linguistico ai miei Come già illustrati a china da Pietro Cerami. Continua a dire che l’unica cosa a interessarlo oggi è l’arte astratta e concettuale ad oltranza, proprio perché non venga capita o fruita da chi vive di capre, di latte e di sterco. Non posso dargli torto, non gli dò torto. Né gliene danno i suoi vari amici ed estimatori dei quali pubblicherò tra non molto il pensiero o il ricordo di quando Roberto Zito viveva a Roma ed operava preferibilmente nei centri sociali, occupati o no che fossero.
È successo dell’altro in via Trinacria 52 ma di ciò non mette conto parlare in questo racconto.

Palermo, 3 Novembre 2008.

LA METAFORA DEL FRINGUELLO

Mi avevano parlato a più riprese di un particolare sito (o meglio lo consideravano una nicchia) che avrei dovuto visitare una volta sceso in Sicilia qualsiasi fosse la ragione. A mia volta rispondevo che sì, lo avrei fatto e intanto rinvio a tempi migliori. Si legge infatti nella stampa internazionale di eruzioni vulcaniche, disastri aerei perché i piloti perdono la rotta, di esplosioni di gioia accompagnate da fuochi d’artificio che presto si trasformano in incendi all’arrivo di qualche personalità in vista. Ora – e lo dico senza albagia – una cosa è certa: io godo di una tale notorietà da essere scoperto a prima vista, dovessi addirittura vestire un saio o coprirmi da capo a piedi con la tuta di un palombaro. Per me parlano gli scoop, gli audio e verbo-visivi con relative foto scattate dai vari paparazzi (costo per riscattare quel materiale? un occhio della testa e meno male che madre natura me ne ha dato uno di riserva). Sono sicuro dunque di quanto potrebbe

succedermi non giungessi in quella zona di soppiatto. Ecco perciò che rimando; non ho mai il tempo necessario per travestirmi come si conviene per sfuggire agli sguardi indiscreti dei siciliani; le tute mimetiche non servono (ci sono abituati, le hanno usate sempre anche loro: e pare con notevoli risultati); anche meno le referenze. Io ne avrei da riempire una valigia: dalla massoneria di Newark affiliata al Grande Oriente; da quell’altra di Oboken affiliata al Grande Fratello; dal governatore dello Stato di New York (un siculo-americano di terza generazione con un pedigree di tutto rispetto, ed infatti lo considerano un uomo di rispetto), fino a un pezzo grosso della Borsa. Non è a loro comunque che mi rivolgerei dovessi finalmente decidere di metter piede in uno dei due scali dell’isola, ci vuole dell’altro per rendere proficuo il mio soggiorno in quel territorio. Ecco allora che il giorno in cui… Ma andiamo per gradi.
Passeggio un giorno per Broadway come un qualsiasi turista. In verità non so ciò che cerco: diciamo meglio che non cerco proprio niente. È infatti, quella, una mattina in cui ho deciso di darmi all’ozio (malgrado si dica tanto male dell’ozio specialmente da noi in America: cosa diversa fossimo in Brasile). Sotto gli occhi mi scorrono insegne di negozi; targhe di tassì; targhe di automobili con sigle aventi la funzione di ricordarti da quale stato provengono; targhe di autobus e pullman ma non mancano le targhe stradali tutte le volte che raggiungo un incrocio. Provo a memorizzare tutti quei numeri e nomi; li miscelo con i titoli dei film e quelli degli spettacoli teatrali la cui programmazione è prevista in serata; mi soffermo a leggere locandine e materiale vario messomi in mano dagli strilloni (ovviamente dopo che mi abbiano strillato perché manca poco e finisco sotto una macchina nell’attraversamento da un marciapiede all’altro con il rosso). A questo punto ho la testa piena, da vuota che era quando sono uscito di casa con la speranza di riempirla di niente che non sia il profumo di frutti di bosco; aria tersa e pulita da settembre islandese inoltrato (manco a dirlo sono un islandese di sesta generazione ma, si sa, la nostalgia colpisce anche noi sebbene la mia famiglia sia giunta negli States or sono centocinquant’anni); squittio di scoiattoli; miagolio di mici; bramiti di cervi (in inglese bells, come si trattasse di campane) e invece niente di tutto ciò. Meno che meno gente alla Dave Crockett perché pare la moda sia cambiata mentre io me ne stavo rintanato – talvolta semplicemente acquattato – in casa per sfuggire vuoi ai pericoli della strada e vuoi alla tentazione di darmi anima e corpo alla vita di ogni giorno. Per chi non lo sapesse i minuti a New York sono contati: mai che si sgarrasse di un secondo. I giorni volano che è un piacere: scanditi come sono dall’altalena dei titoli quotati in borsa. La borsa della spesa – meglio chiamarla carrello – è così piena da caderne sempre un barattolo di nutella o due con la conseguenza che dietro di noi c’è sempre qualcuno a raccoglierla, ed oggi perciò si mangia. A me però l’abbondanza interessa poco o punto; sono un tipo morigerato; non fumo (mai entrato in una tabaccheria); non bevo (mai comprato una bottiglia di whisky in questa o quella winery); niente lupanari. Potrei dunque essere preso a modello per una qualche trasmissione televisiva visto anche il mio fisico longilineo, non un filo di grasso. C’è però che sono un misantropo e questo ovviamente non gioca a mio favore.
Ma perché mi sono ridotto in questo stato, io che conducevo una vita brillante passando da un party per l’inaugurazione di una joint venture di questo o quel mio amico con dei magnate brasiliani del legname a un altro in cui si va a celebrare nella tal galleria d’arte contemporanea una collezione di ragni della omeopata Louise Bourgeois (che per l’occasione si presenterà con un fallo in lattice sotto l’ascella probabilmente per suscitare il dileggio dei curiosi presenti)? Come mai ho abbandonato il glamour al quale tanto tenevo, l’high society alla quale appartenevo, il bel mondo alla Gatsby per rinchiudermi in me stesso e chiudere anzi la porta a chiave per una forma di decantazione ritenuta – forse erroneamente – necessaria?
Non so, non saprei, mi è tutto confuso in testa da quando, seduto su una panchina del Central Park venne a farmi visita un barbone. Mi chiese il permesso, lo ottenne, occupò lo spazio libero, cominciò a bofonchiare in una lingua a me sconosciuta e tossicchiando. Essendo certo (non so come) che io non fumassi tirò fuori dalla tasca del pastrano un sigaro e dopo averlo acceso passò a sbuffare chiedendomi però se la cosa non mi dispiacesse. Ancora dopo – io stralunato – stappò la bottiglia tascabile di un superalcolico tipo red label e ne tracannò d’un sorso una buona metà. Raggiunto quindi l’optimum del benessere si regalò un attimo di riflessione per quindi passare alla narrazione della sua vicenda personale.
Mi disse di essere armeno – e almeno questo poteva essere vero benché non seppe collocare geograficamente il paese dal quale presuntivamente proveniva. Continuò dicendomi delle sue delusioni già prima della traversata dell’Atlantico a bordo di una nave mercantile in cui si era imbarcato come vice cambusiere. Dovette subito fare i conti, nel porto di Genova, col comandante e con ciò che conteneva la cambusa. In poche parole, essendo egli un puro, abituato a pane e latte – tutta roba genuina – l’idea di dar da mangiare all’equipaggio scatolame e carne di bue macellata qualche mese prima lo portò a vomitare in faccia tutta la sua indignazione contro il sistema di imbarco e sbarco della merce buona e successivo imbarco dell’altra. Al porto di New York comunque ci arrivò sano e salvo, dovette però farsela a nuoto nottetempo per toccare terra. Qui giunto e non avendo dove approdare si era dato a fare il barbone sia pure con qualche divagazione.
Aveva infatti del talento, l’armeno. Sapeva usare colore, pennello e matita vuoi per le icone religiose di stampo ortodosso e vuoi per i ritratti al carboncino. Non si era mai avventurato nell’uso della china ma non avrebbe dovuto essere difficile. Fortuna comunque nessuna; nessuno che si fermasse per avere quantomeno lo schizzo di un profilo per qualche centesimo di dollaro: al massimo una moneta finisce nel suo berretto che gli fa da acquasantiera. Visti vani i tentativi di fare l’artista si era convertito alla vita da errante: stasera si dorme sotto il ponte di Brooklyn, domani in una carrozza della metropolitana. Finché gli venne il ghiribizzo di darsi ai graffiti con il proposito di farsi notare e magari apprezzare da qualche gallerista. Era finito invece in un penitenziario. Dove, per questa sua strana tendenza a volere fare il pittore, fu subito preso per un maudit alla Dubuffet.
I parenti dei matti non fanno che chiedergli caricature dei loro congiunti; il direttore idem; gli infermieri fanno la fila; il personale di fatica fa fatica a capire gli sgorbi e i ghirigori nonché le campiture con la spatola (nel senso di manico del cucchiaio) che il nostro spande a destra e a manca sulla tela (quella grezza che funge da lenzuoli). Fortuna finalmente vuole che un gallerista venga a visitare un parente, nota i suoi quadri, si informa, offre cauzione e lo manleva. Da quel momento la sua vita cambia da così a così… ma andiamo per gradi.
Quel giorno al Central Park c’ero andato per fare ginnastica. Alzo una gamba? e sono un elastico. Provo a toccare terra con la punta delle dita? e ci riesco con estrema facilità. Una corsetta? e per poco non sfioro i cento all’ora. Tutto perfetto dunque per un buon newyorchese, anzi uno yankee. Finché non mi venne la malaugurata idea di sedermi in quella panchina ed ancor più malaugurata perché di lì a poco venne a sedermisi accanto l’armeno. Il quale, in un impeto di affetto – senza che gli avessi dato occasione di pensarlo – comincia a decantarmi il sentimento dell’amicizia (segno che vuole diventare amico mio); mi offre la sua (ed io che non so proprio cosa farmene); mi racconta a un certo punto tutto della sua famiglia lasciata ovviamente in Armenia, e ci aggiunge pure la tragedia dei curdi: anch’essi senza una patria. Io un po’ l’ascolto, per carità di patria, e un po’ cerco di cambiare discorso. È così che andiamo avanti per un pezzo allorché si chiude in un mutismo a labbra serrate che quasi se le mangia, lo stesso faccio io.
La storia sarebbe finita lì, con lui che resta dov’è ed io che me ne vado lesto lesto, non fosse per un fringuello… ma anche qui andiamo per gradi.
Per chi al Central Park non c’è mai stato è bene che si sappia quale sia il numero di uccelli tra stanziali e di passo soliti mettersi a spiare – facendo finta di niente – chi ci viene per fare ginnastica e chi invece per dare sfogo alla propria logorrea. Tra questi un posto di rilievo ce l’hanno i barboni (i quali spesso ci vengono armati di buona volontà e qualche bottiglia di whisky scozzese: talvolta semplice bourbon). Se ne stanno, i fringuelli, cheti cheti; ascoltano senza fare alcun rumore con le ali: nemmeno sentissero il bisogno di sgranchirsele; non cinguettano malgrado a tratti gli viene da ridere per tutte le fandonie dei barboni alle prese con qualcuno da commuovere alla loro storia. Cosa ancora più strana è che capiscono un po’ tutte le lingue e i dialetti del mondo, mentre io stavo stentando a capire quello dell’armeno. Succede a questo punto – e cioè quando sono sul punto di andar via – l’imprevedibile: il fringuello si mette a ridere. Accorreranno due bestioni alti due metri appena scesi da un furgone, afferrano e sollevano di peso il mio coinquilino della panchina, mi strizzano l’occhio come a dire che quello lì è un matto uscito dal manicomio (non mi dissero però quale). Per quindi dileguarsi lasciandomi di stucco non riuscendo ancora a rendermi conto se non fossero venuti invece per me, avvertiti come sicuramente erano stati dal fringuello.
Una cosa comunque mi era rimasta di quella esperienza: davvero inconsueta viste le premesse. Durante il suo sfogo l’armeno mi aveva fatto delle confidenze. Prima di recarsi a Genova per imbarcasi come vice cambusiere aveva fatto tappa a Palermo per scoprire se qui non ci fossero dei talenti dai quali apprendere l’uso dei pennelli, della tela e del carboncino nei quali si sentiva versato naturalmente, semplicemente naturalmente. Era finito in un quartiere malfamato chiamato Vucciria. Ci aveva conosciuto un certo Zito e successivamente incontrato un tale Salamone impregnati fino all’osso di pittura. Vollero, i due, fargli vedere alcune loro cose, e lo portarono quindi nell’abitazione e studio di un altrettanto tale il quale si dimostrò ben disposto (benché quel giorno fosse indisposto) a mostrargli quadri, quadretti ed affreschi. Ne era rimasto quasi folgorato perché in quelle opere ci aveva visto la loro ascendenza dal popolo armeno quanto a lotta contro i turchi (cosa da turchi! mi venne da pensare) nonché simboli di un probabile degrado in cui stesse precipitando la natura. Lo avrebbe impressionato, del Salamone, la figura di un pesce imbalsamato dopo essere stato legato e buttato in mare perché facesse una fine da rifiuto. Ci trovò affinità con il suo sentire nel vedere cosa può fare l’invenzione a contatto con una scintilla che scocchi e bruci quanto non ci piace. In questo i due artisti presunti, nella nicchia dell’Apolloni, esprimevano tutt’intero il rifiuto di uno stand-by asfittico nel quale sembrava trovarsi la creatività almeno nel momento in cui avevano proceduto ad affrescarne le pareti. Ci avrei trovato, ove ci fossi andato, una porta che si apre e si chiude alla Magritte; un omaggio a Léger; la creazione di tutte le specie evolutesi da una conchiglia marina; il futuro affidato all’esplosione spaziale; due colombi che tubano mentre siedono sul ripiano di un cavalletto tra pennelli da cui sgorga e si spande per terra il colore, e poi sassi dell’Isola di Salina. Non mancherà di trovarci altresì – mi disse l’armeno – un paio di jeans appesi contro il cielo, un’insegna al neon dipinta al tromp l’oeil, una mela spaccata in due con esposti i semini (simbolo del peccato finalmente purificato?) e una libera associazione di segni di stampo post-modern a dispetto dell’astrattismo puro. Quali siano le opere di Roberto Zito o di Salvatore Salamone non saprei – continuò l’armeno prima che fosse interrotto dalle due guardie armate venute per riportarlo in manicomio. Mi rimase comunque del nostro colloquio la curiosità di andare a vedere di persona.
Ed eccomi allora giunto al giorno in cui, trovandomi in uno stato di abulia e a passeggio per B’way senza una meta precisa, mi viene in soccorso la memoria. Non saprei dire cosa l’abbia provocata, forse un’immagine qualsiasi proiettata sul maxischermo di Times Square (pochi secondi e scompare), oppure il cinguettio di quell’uccelletto rimastomi nel cranio. Certo è che cambio strada, mi dirigo verso casa già deciso sul da farsi; mi attacco al telefono e prenoto con la TWA il volo per l’Italia destinazione finale Palermo. Mi riceverà quel tizio di cui in questo momento non ricordo il nome? Appena sceso a Punta Raisi però e domandato al più vicino tassista la risposta l’ebbi pronta: “Chi? il tizio che colleziona opere di Zito, Salamone e Sucato come fosse un matto”?
Manco a dirlo mi accolse cordialmente; mi accompagnò lungo il dedalo dei corridoi e delle stanze; volle illustrarmi il significato delle varie opere con i loro rimandi (e qui debbo dire fece un gran pasticcio di generi ed epoche ma non potei non perdonarglielo stante la vivacità della narrazione che mi andava facendo di ogni singolo momento in cui quei murales o tempere erano stati creati). Volle pure farmi assaggiare la specialità della casa: un brodo di trippa niente male, preparato da sua moglie, ma si immagini con quale disgusto ebbi a mangiare quella blobba se si pensi che da noi la trippa si dà ai gatti. Rimanemmo comunque amici e lo invitai a venirmi a trovare dovesse ritornare a New York. Purtroppo la cosa non è ancora avvenuta. Rimarrebbe davvero allibito, il tizio, nel vedersi riprodotto – unitamente alle opere di cui sopra ed altre che non mette conto – in questa simpatica specie di racconto.

Palermo, 23 Ottobre 2008.

VIAGGIO NELL’ETERE DELL’ARTE
FAVOLA PER ADULTI

Ho conosciuto Salvatore Salamone nel marzo 1972, se ben ricordo. Ero partito mesi prima a bordo di una slitta. Quattro renne per motore e tanta paglia. Carne in scatola Simmenthal (perche’ dall’aereo che mi sovrastava a tratti mi riprendes-sero e andassero a vendere il servizio alla casa produttrice qualora fossi tornato sano e salvo). Zolle di zucchero se per caso avessimo incontrato un branco di lupi. Arance e limoni contro lo scorbuto. Stavo andando verso il fiordo di Ikka, Groenlandia Occidentale, per osservare dal vivo un fenomeno insolito: cinquecento tra colonne, colonnine e colonnette sottomarine ma prodotte presumibilmente dall’acqua dolce.
All’epoca facevo l’esploratore. Camminavo con in tasca una bussola. Per orientarmi meglio l’avevo munita di un sonar. Se si accorgeva di una buca senza una botola mi avvertiva. Se stavo per scontrarmi con la realta’ cominciava a strillare peggio di un bimbo capriccioso. Mi era pero’ sopratutto utile nell’individuare i percorsi dell’arte. Non fosse stato per lei non avrei saputo, ad esempio, del concretismo. Quando si dice che per essere concreti ci vuole un pizzico di concretismo.
Ero dunque diretto a Ikka (un fiordo tra tanti ma con la peculiarita’ che lo faceva unico al mondo). Avevo gia’ studia-to le concrezioni di Mono lake e Pyramid lake ma qui la cosa sarebbe stata diversa. Non tanto perche’ si diceva che le colonne le creava l’ikaite (mentre prima si era sostenuto che a farle fosse l’aragonite o la malachite) quanto perche’ per andarle a vedere bisognava attrezzarsi a dovere. Conscio del pericolo di potere restare senza viveri o scorte di paglia, avevo noleggiato un biplano e l’avevo affidato al mio amico Bjorn (della Royal Dutch Airlines). Era lui che mi passava sopra di tanto in tanto, e con le mani mi faceva un cenno di saluto. Perche’ mi incoraggiasse nell’impresa poi, aggiungeva che i saluti me li mandava proprio lui, il Salamone.
Quand’ e’ che avevo sentito parlare di questo ragazzo, o lo avevo visto? Ricordavo di un tipo smilzo, piu’ barba e capelli che carne addosso, intento a calare tra cielo e terra, tra terra e mare massi grossi cos’ per farne chi sa cosa. Attratto dalla mia solita curiosita’ mi ero avvicinato. Non riuscivo a distinguere bene da dove m’ero piazzato. Scesi trotterellando come chi abbia fretta di andare a vedere. Con mia somma meraviglia scopersi cio’ che non ero riuscito a distinguere dalla sommita’ della collina da cui avevo iniziato l’osservazione. Si trattava di una stella a sei punte, una stella di Davide.
Debbo dire che a questo punto rimasi turbato. Aggiungo anche che sentii un certo brivido da freddo alla schiena. Eravamo a pochi chilometri da Tiro. Tira tu tira io il confine tra Israele e Libano meridionale non si sapeva mai dove fosse. Arrivava un miliziano e diceva questa qui e’ roba mia. Arrivava il giorno dopo uno dello Shin Bet e diceva “Dio me l’ha data e guai a chi me la tocca”. Tra una diatriba e l’altra i giorni passavano e noi ci trovavamo una volta da una parte una volta dall’altra. Vuoi vedere che questi la smetteranno di tirarsi semplicemente delle pietre; la smetteranno di giocare a Davide e Golia e ci tireranno addosso magari qualche pallottola di avertimento? E che fu profezia? Ero li’ che ammiravo la stella realizzata da questo ragazzo – mica una cattiva stella, questo no, ma non e che proprio mi porto’ fortuna nella circostanza – quand’ecco che avverto un sibilo. Faccio appena in tempo a piegare la testa ed ecco che sulla schiena, ma di striscio, mi arriva una pallottola di gomma.
Sono a terra, sono svenuto (pero’ non tanto da non riuscire a vedere cio’ che segue). Soldati da una parte e dall’altra. Chi toglie un vertice al triangolo. Chi scompagina i lati. Chi solleva con tanta rabbia un macigno e lo scaglia contro un avversario. Chi ricompone il triangolo. Chi ci piazza dentro una bandiera e dice “questa e’ una nostra piazzaforte e da qui non ce ne andiamo”. Sarebbero giunti persino alle mani se non fosse che quel ragazzo sale su un pulpito (fatto della chioma di una palma appena abbattuta dalla vetusta’); fa dei gesti con le mani (come per dire statemi a sentire); comincia quindi la predicazione e dice: “Ma che avete capito! Ignoranti, buffoni, litigiosi! Avete mai sentito parlare di Art, Land Art, Sea Art e cose del genere? Nient’altro che di questo si trattava. Niente che volesse togliere a qualcuno qualcosa ma un semplice valore aggiunto. Meditate dunque ragazzi, meditate. E se potete datevi all’arte anche voi”.
Finito di sentire la predicazione caddi (volontariamente?) in deliquio. Mi mancarono le forze. Non feci neanche in tempo a domandare chi fosse quel ragazzo e quale il suo nome. Mi risvegliai dentro un’ambulanza del Soccorso Rosso (nel senso che i conducenti, i portantini, gli infermieri e i dottori intervenivano solo se ci fosse stato da soccorrere qualcuno che perdesse sangue). Non mi vollero pero aiutare a sapere. Eravamo in zona di guerra e in quelle zone meno si parla e meglio è.
Ho già detto che sono nella slitta diretto a Ikka. Neve e ghiaccio lo scenario. Davanti a noi pianure sconfinate e intonse. Come farebbero le renne a orientarsi e’ un mistero. Per fortuna gli uomini sono usciti dal mistero per merito di Flavio Gioia (che pero’ non avrebbe inventato la bussola se non ci fosse stata una calamita da qualche parte). Mi tengono compagnia i saluti che mi manda dall’alto del biplano il mio amico Bjorn. Mi intrigano però sopratutto i segni con le mani. Riesco a distinguere dei triangoli. Mi pare pure di capire che uno e’ rovesciato e l’altro no. Che si stiano incrociando? Che stiano formando una stella a sei punte? Ma per Dio, non sarà quella che ho visto su un lembo del Mediterraneo quella volta, a sud di Tiro; la volta che mi capitò di essere colpito alla schiena ed uscire indenne dall’avventura perche’ spiegai al Servizio Segreto Israeliano che io la’ mi ci trovavo per caso e solo per caso avevo capito che sulla spiaggia c’era un land-artista? Si chiamava Salvatore Salamone? E che ne so. Io ero appena arrivato. Ero rimasto incantato dalla sagacia e dall’arguzia di quel ragazzo (che pur di far presto aveva disegnato con i massi degli angoli arguti invece che acuti). Se avevo fatto delle foto? Certo che si, ma perche’ era vietato? Non vollero comunque credere che nella baraonda e nel parapiglia la Kamera fosse finita in acqua. Solo per questo mi buscai cinque giorni di rigore dopo la guarigione dalla bronchite (perché mi buscai anche quella). Ma almeno avevo salvato le foto della installazione.
Quanto a lui non lo so cosa gli accadde. C’è chi dice di averlo visto segnare sull’argille segni arcani. Chi dice di riconoscere in quei segni la scrittura paleo-ebraica. Chi si inventa piu’ storie per fare bella figura. Una di queste storie dice che una volta egli venne (dev’essere stato nel 1972) in casa Apolloni. Lui, l’Apolloni, non c’era. Lui, il Salamone, vede una parete nuda e invece di castigarsi comincia a tracciare linee per farne oggetti conosciuti (come alberi o case rustiche; pesciolini o contenitori1 per pesciolini rossi). Gia’ che ci siamo – si dice – perche’ non impacchettare uomini e pesci: i primi da mandare a macerare dentro sacelli alla moda musulmana; i secondi dentro carri frigoriferi? E’ bastato poco, questo fiat, per ricondurmi alla narrazione del mio viaggio in slitta alla volta di Ikka. Che pero’ ancora e’ troppo lontana per poterne parlare diffusamente.
Trotterello da giorni, io e le renne (l’equivalente di “tu e le rose” della nota canzone). Per tenermi compagnia accendo la radio e la sintonizzo sulle onde lunghe (forse questo mi aiuterà a far prima). Da prima le solite cose. Dopo un pò un programma (finalmente) culturale. Oggi si parlerà di Salvatore Salamone. Trac trac sento girare le manopole di tutte le altre radio. Piu’ nessun ascoltatore tranne me. Dalla regia se ne accorgono. Mi mandano pero’ un segnale a raggi infrarossi per sapere se sono interessato a seguire la trasmissione. Parlera’ di Salamone un certo Apolloni … E no! A questo punto salto in aria (e fortuna che ripiombo dall’aria prima che la slitta mi scivoli sotto, altrimenti sai il tonfo). Questo e’ troppo. Qui, o c e un’ operazione falsificazionista bell’e’ buona, o trattasi quantomeno di un apocrifo. Io il Salamone non lo conosco. Ne’ ricordo di avere mai inciso qualcosa per lui alla radio. Ricordo di averne parlato tante volte in convegni di studio, in seminari, in conventi, in conventicole anche, ma mai alla radio di Stato. Io e lui con lo Stato siamo stati in guerra: ideologica, e’ vero, ma sempre guerra e’ stata. Non e’ un caso se in un momento di massima tensione (di piu’, molto di più delle 220 volts ordinarie) ha disegnato addirittura un Quarto Stato (o Quarto Potere, non so) su una parete di casa mia, ma cosi’, sottosopra. Ne’ e’ un caso che sempre in casa mia c’è un fascio di garofani rossi che fuoriescono da una scatola di cartone con su scritto Fragile.
Via telefonino (molto meglio un telefonino che un cellulare, a questo punto: e viste le cose come stanno andando) chiamo il regista della trasmissione. Manco a dirlo. Trattasi di un suo coeuta, un certo Michele Lambo. Mi spiega che la trasmissione e’ fatta di schegge, di blob, di cose che sono andato ripetendo ad alta voce ogni qual volta mi e’ capitato di vedere cose di altri artisti ed affini. Forse non me ne sono accorto. Forse non e’ nemmeno vero ma il Salamone mi veniva appresso una pulce nascosta sotto l’ascella e un micro-registratore nel cavo della mano. Diamine! dico. Ecco perche’ teneva la sinistra sempre impegnata a stringere qualcosa. Ecco anche perche’ non mi lasciava mai per corto (per piccino che tu sia) quando c’era da affinare il senso critico e per essere sicuri che funzionasse si criticava questo e quello.
Rassicurato, rasserenato (il cielo intanto si e’ sgombrato delle nubi e sembra essersi tinto di rosa per rendermi piu’ piacevole l’ascolto) mi metto volentieri ad ascoltare. Dice l’Apolloni di quando il Salamone previde la fine del mondo e comincio’ a dare l’altola’ alle petroliere della Texano. Accenna appena appena alla sua previsione di un globo completamente invaso da funghi a forma di grattacielo (dal quale fuggire a bordo di un deltaplano: nel senso di un piano a forma di delta, tanto meglio se di zeta). Tenta di incuriosire se stesso (considerato che e’ l’unico ascoltatore della trasmissione in tanta landa di neve e silenzio) ricordando di quando volle dipingere una porta lasciandola tale ma facendone al contempo tanti segmenti come punti di fuga, e ritorno della fantasia (omaggio a Magritte).
Raggiunge comunque il diapason quando comincia a toccare le corde del cuore. Si sentiranno in sottofondo bramiti e rimpianti, promesse e giuramenti, propositi e proposte di fare di piu’ e di meglio di quanto ebbero a suggerire a lui e ad altri Rossana Apicella e Guglielmo Achille Cavellini.
Ai quali peraltro va questa favola-racconto.
Quanto a ìkka non sono riuscito ad arrivarci perche’ intanto comincio’ a calare la nebbia e io con la nebbia non mi ci ritrovo. Quantomeno pero’ quel fallito viaggio mi e’ servito per far sapere al mondo di Salvatore Salamone e della sua poliedrica attivita’ di pittore ed artista. E non so davvero dire se piu’ l’uno che l’altro.

Palermo, 8 Dicembre 1997.

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